Sotto accusa non c’era l’esplosione datata 26 settembre del ‘76 quando ci fu il panico a Manfredonia, ma quelle che la Procura riteneva insufficienti e/o inadeguate operazioni di bonifica dell’area inquinata, che avevano causato il disastro ambientale e i conseguenti tumori e decessi.
VERDETTO CONFERMATO - La terza sezione della corte d’appello di Bari ha assolto perchè il fatto non sussiste i 12 imputati, confermando integralmente il verdetto del giudice monocratico Michela Valente della sezione distaccata di Manfredonia del Tribunale di Foggia, emesso il 5 ottobre del 2007. Contro quella sentenza c’era stato il ricorso dell’accusa. La Procura generale, dopo aver chiesto inutilmente in apertura del processo d’appello di riaprire l’istruttoria dibattimentale e disporre nuove perizie, chiedeva di riformare la sentenza di primo grado e di condannare gli imputati. Nel processo d’appello hanno insistito nella costituzione di parte civile, chiedendo la condanna di alcuni imputati, la Regione Puglia; il ministero dell’ambiente tramite l’Avvocatura dello Stato; Medicina democratica; la Confederazione unitaria di base; e i familiari di Nicola Lo Vecchio, il dipendente dell’Enichem addetto al magazzino insacco, deceduto per una neoplasia polmonare il 9 aprile del ‘97: fu la sua denuncia, nel settembre del ‘96, a dare il via all’inchiesta della Procura sfociata nel gennaio del 2002 nel rinvio a giudizio dei 12 imputati. Il collegio difensivo (gli avv. M i ch e l e Curtotti, Vincenzo Tizzani, Raul Pellegrini, Maurizio e Gianfranco D’Andrea, Angelo Giarda, Mario Russo Frattasi, Antonio Caruso e Giuseppe Carboni) sollecitava la conferma della sentenza di primo grado, e in subordine il non doversi procedere per prescrizione.
L’ATTO D’ACCUSA - Gli imputati - sosteneva la Procura - avevano omesso tutta una serie di contromisure per limitare i danni causati dalla fuoriuscita delle 10 tonnellate di arsenico: da qui le accuse di disastro colposo e 17 omicidi colposi. Nell’ottica accusatoria il prolungato contatto degli operai dello stabilimento e di quelli dell’indotto con l’arsenico rimasto nell’aria per almeno sei danni, dal ‘76 all’82, aveva provocato una serie di tumori a polmoni, laringi e colicisti con 17 decessi, 6 casi di lesioni: furono 1900 gli operai esposti in quell’arco di tempo ai residui velenosi. A dire della Procura i lavoratori dello stabilimento manfredoniano non furono informati dei rischi causati dall’esposizione all’arsenico; non furono impiegati operai specializzati nella bonifica dell’area; non ci si assicurò che i dipendenti usassero maschere protettive con filtri cambiati quotidianamente e tute impermeabili a tenuta stagna; non fu monitorato ciclicamente l’ambiente per verificare i livelli di concentrazione dell’arsenico nei terreni, nè fu ridotto al minimo indispensabile il numero di persone cui consentire l’ingresso nello stabilimento. Tutte accuse che non hanno retto al vaglio dei giudici di primo e secondo grado.
«NESSUNA PROVA» - La difesa contestava su tutta la linea la tesi del pm e dei suoi consulenti. Le operazioni di bonifica erano state fatte a regola d’arte; la consulenza epidemiologica della Procura (incidenza di tumori nell’area sipontina sul numero di abitanti) raggiungeva conclusioni errate e non dimostrava affatto il nesso di causalità tra la presunta esposizione all’arsenico e l’insorgenza dei tumori, che era il «cuore» del processo; il processo di primo grado e le perizie disposte dal giudice avevano escluso qualsiasi responsabilità dei dirigenti dell’ex Anic poi Enichem (sia di quelli nazionali, sia dei manager dello stabilimento sipontino) e degli esperti di medicina del lavoro. La sentenza di secondo grado pone così la parola fine ad un’inchiesta avviata 15 anni fa, a meno che la Procura generale non insista ricorrendo in Cassazione (ma le statistiche dicono che raramente la Suprema Corte annulla sentenze d’appello che confermano i verdetti di primo grado).
fonte : www.lagazzettadelmezzoggiorno.it
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